05-12-2014
Marco Goegan
Marco Goegan
I dati geografici stanno acquisendo sempre maggiore importanza nell'ambito della data analysis. Proprio per far conoscere quali livelli di sviluppo sono stati raggiunti e come sfruttare al meglio queste informazioni, Value Lab, in collaborazione con Sas, Esri Italia e Here, ha organizzato “Location Analytics: innovare integrando dati e analisi geografiche nei sistemi informativi”, ovvero come i GIS (Geographic Information Systems), le mappe, le basi dati, gli approcci e i modelli di analisi spaziale, possono essere integrati con i sistemi di Business Intelligence, CRM, Sales Force Automation, E-commerce, ERP, al fine di portare vantaggi alle aziende che si traducono in un miglioramento dei processi decisionali, nell'aumento dei ricavi e nella riduzione dei costi.
Marco Santambrogio, fondatore e managing director di Value Lab, ha esordito facendo il punto sul livello tecnologico raggiunto dalla location analytics: «Sono tre i requisiti fondamentali per far sì che i dati geografici possano essere davvero un valore aggiunto: che esistano tecnologie abilitanti che li sfruttino realmente, avere dove depositare la grande mole di dati (i cosiddetti data lake) e infine riuscire a confrontare e incrociare tra loro informazioni da fonti diverse, per esempio fonti interne ed esterne a un'azienda, oppure dati anagrafici, statistiche, dati geografici e ricerche di mercato». Proprio per questo Value Lab annovera nel suo team figure come i data scientist. Ha proseguito Santambrogio: «Ora sento parlare spessissimo di data scientist, ma ci tengo a dire che noi abbiamo queste figure da vent'anni. La cosa fondamentale, torno a ripetere, è avere le tecnologie abilitanti, che i nostri partner, Sas, Esri e Here, possono offrire. La location analytics è come un iceberg. La base dell'iceberg, sommersa, è data dalla tecnologia, poi risalendo troviamo i dati e infine l'analytics. La punta dell'iceberg, non sommersa, è il business».
Stefano Brigaglia, senior specialist Value Lab, ha approfondito il tema della location intelligence: «Perché ha senso aggiungere alla nostra analisi i dati geografici, nonostante la complicazione che questa operazione comporta? Innanzitutto voglio sottolineare che i big data non vanno a sostituire i sistemi tradizionali. I database tradizionali devono rimanere. Semplicemente l'informazione non dipenderà più dall'anagrafica, ma da quello che l'utente sta facendo, in tempo reale. Avere un dato geografico non vuol dire avere una mappa: la mappa non è detto che serva. A me interessa possedere il dato geografico per avere una capacità analitica e il risultato finale della mia analisi può essere tranquillamente un foglio Excel. Consideriamo questo presupposto: tutto adesso trasmette dati, lo smartphone che abbiamo sempre con noi, ma anche un furgone. Ciò che conta di queste informazioni non è creare graficamente una mappa, bensì poter fare operazioni con queste informazioni».
Molto interessante, in questo senso, l'esempio portato da James Marigg, senior partner manager SE-Enterprise Here: «Ci sono milioni di sensori: l'Internet of Things ha creato un flusso massivo di dati da connessioni e device. Pensate alle famose “5W” del giornalismo: oggi queste informazioni sono facilmente accessibili. Possiamo sapere “chi”, utilizzando l'id del device che poi ricollego a una persona, “cosa”, con i dati trasmessi dal device, “quando”, cioè il momento in cui quel dato è trasmesso, e infine “dove”, con il geotag. Grazie a un singolo device io posso avere in tempo reale tutte queste informazioni e sfruttarle. Per esempio posso sapere quanti hanno visto un cartellone pubblicitario calcolando quante persone sono passate lì davanti».
Sfruttare il dato è quindi importante, ma non è il punto di partenza. Lo ha sottolineato anche Giorgio Dossena, regional advisory technical manager SAS: «L'analisi parte sempre dall'acquisizione del dato. Posso creare campagne ad hoc in real time advertising specifiche per il cliente a seconda dell'hotspot da cui un utente si connette con il suo smartphone. Detto in altri termini, acquisendo il dato della connessione posso far sì che, quando un utente è davanti a una determinata vetrina, sullo smartphone veda un avviso pubblicitario legato a quel negozio, mentre quando passerà davanti a un'altra, avrà un messaggio differente». Come a dire che non c'è data value senza data collection.
Marco Santambrogio, fondatore e managing director di Value Lab, ha esordito facendo il punto sul livello tecnologico raggiunto dalla location analytics: «Sono tre i requisiti fondamentali per far sì che i dati geografici possano essere davvero un valore aggiunto: che esistano tecnologie abilitanti che li sfruttino realmente, avere dove depositare la grande mole di dati (i cosiddetti data lake) e infine riuscire a confrontare e incrociare tra loro informazioni da fonti diverse, per esempio fonti interne ed esterne a un'azienda, oppure dati anagrafici, statistiche, dati geografici e ricerche di mercato». Proprio per questo Value Lab annovera nel suo team figure come i data scientist. Ha proseguito Santambrogio: «Ora sento parlare spessissimo di data scientist, ma ci tengo a dire che noi abbiamo queste figure da vent'anni. La cosa fondamentale, torno a ripetere, è avere le tecnologie abilitanti, che i nostri partner, Sas, Esri e Here, possono offrire. La location analytics è come un iceberg. La base dell'iceberg, sommersa, è data dalla tecnologia, poi risalendo troviamo i dati e infine l'analytics. La punta dell'iceberg, non sommersa, è il business».
Stefano Brigaglia, senior specialist Value Lab, ha approfondito il tema della location intelligence: «Perché ha senso aggiungere alla nostra analisi i dati geografici, nonostante la complicazione che questa operazione comporta? Innanzitutto voglio sottolineare che i big data non vanno a sostituire i sistemi tradizionali. I database tradizionali devono rimanere. Semplicemente l'informazione non dipenderà più dall'anagrafica, ma da quello che l'utente sta facendo, in tempo reale. Avere un dato geografico non vuol dire avere una mappa: la mappa non è detto che serva. A me interessa possedere il dato geografico per avere una capacità analitica e il risultato finale della mia analisi può essere tranquillamente un foglio Excel. Consideriamo questo presupposto: tutto adesso trasmette dati, lo smartphone che abbiamo sempre con noi, ma anche un furgone. Ciò che conta di queste informazioni non è creare graficamente una mappa, bensì poter fare operazioni con queste informazioni».
Molto interessante, in questo senso, l'esempio portato da James Marigg, senior partner manager SE-Enterprise Here: «Ci sono milioni di sensori: l'Internet of Things ha creato un flusso massivo di dati da connessioni e device. Pensate alle famose “5W” del giornalismo: oggi queste informazioni sono facilmente accessibili. Possiamo sapere “chi”, utilizzando l'id del device che poi ricollego a una persona, “cosa”, con i dati trasmessi dal device, “quando”, cioè il momento in cui quel dato è trasmesso, e infine “dove”, con il geotag. Grazie a un singolo device io posso avere in tempo reale tutte queste informazioni e sfruttarle. Per esempio posso sapere quanti hanno visto un cartellone pubblicitario calcolando quante persone sono passate lì davanti».
Sfruttare il dato è quindi importante, ma non è il punto di partenza. Lo ha sottolineato anche Giorgio Dossena, regional advisory technical manager SAS: «L'analisi parte sempre dall'acquisizione del dato. Posso creare campagne ad hoc in real time advertising specifiche per il cliente a seconda dell'hotspot da cui un utente si connette con il suo smartphone. Detto in altri termini, acquisendo il dato della connessione posso far sì che, quando un utente è davanti a una determinata vetrina, sullo smartphone veda un avviso pubblicitario legato a quel negozio, mentre quando passerà davanti a un'altra, avrà un messaggio differente». Come a dire che non c'è data value senza data collection.
01/07/2015